Il Congresso societario SIMPIOS del 2021

Ancona 21-23 settembre 2021

The SIMPIOS corporate congress of 2021



Angelo Pan,1 Marcello D’Errico,1 Matteo Moro2

1. Presidente del Congresso

2. Segretario di Simpios


Il 2021, il secondo anno della pandemia di Covid-19, è stato l’anno del nostro 9° congresso nazionale societario: “La multidisciplinarietà per il controllo degli MDR, delle ICA e della pandemia di Covid-19”.

Vogliamo qui presentare una sintesi del congresso, dei tre lunghi pomeriggi passati sul web, davanti ai video dei nostri PC. Non è stata la prima volta in cui per il congresso nazionale abbiamo utilizzato il web, dato che già nel 2014 Cesarina Curti aveva tenuto una brillante relazione via etere al congresso di Pescara: una vera antesignana. Allora si era trattato di una singola relazione, quest’anno abbiamo dovuto organizzare tutto il congresso via etere e crediamo che l’esperienza sia stata positiva.

Il congresso si è articolato in una lettura magistrale inaugurale, dieci sessioni plenarie, trenta relazioni, l’assemblea dei soci e un simposio aziendale; la partecipazione è stata, a nostro giudizio, buona, con un massimo di affluenza di 350 partecipanti, un buon numero per la nostra società, in un momento di pandemia come quello che stiamo vivendo.



Il primo giorno di congresso, il 21 settembre, è stato aperto dalla lettura magistrale tenuta dal prof. Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e già presidente della nostra Società, piccola ma qualificata … Il prof. Brusaferro ha fatto il punto sull’impatto del Covid-19 sul problema dell’antimicrobico resistenza (AMR). La situazione è complessa e il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) ha sofferto molto a causa della pandemia: la sovrapposizione pandemia - AMR è stata purtroppo spesso maleficamente sinergica. Fra gli aspetti più critici dell’impatto del Covid-19 sull’AMR dobbiamo ricordare in primo luogo la carenza di risorse, ma anche le co-infezioni batteriche e fungine, il sovraccarico dei reparti e delle strutture sanitarie, l’interruzione delle attività di ricerca e la difficoltà estrema nel garantire il monitoraggio. Ogni crisi porta però con sé dei cambiamenti che possono avere un impatto positivo: il Covid-19 ha portato in primo luogo una maggiore consapevolezza dell’efficacia dei vaccini, una buona conoscenza dell’uso delle mascherine e delle precauzioni da contatto, una rinvigorita attenzione all’igiene delle mani; inoltre, le innovazioni che si sono rese indispensabili per gestire la pandemia, e in particolare l’organizzazione di grandi flussi informativi dalla periferia verso il centro, un sistema coordinato di elaborazione dei dati, ed infine la sensibilità di tutti nei confronti dei problemi legati alla pandemia e quindi direttamente alle tematiche infettivologiche. Questi aspetti possono rappresentare un momento unico e difficilmente ripetibile per un intervento di largo respiro sulle patologie infettive, e quindi sull’AMR che, come ben sappiamo, rimane un problema cruciale non solo del nostro SSN, ma a livello mondiale.



Nella prima sessione si è fatto il punto sulle priorità che dovremo affrontare nel nostro Paese dopo lo tsunami del Covid-19. I tre relatori, Paolo d’Ancona, dell’ISS, Maria Luisa Moro, direttrice dell’Agenzia Sanitaria e Sociale Regionale dell’Emilia-Romagna, e Gaetano Privitera, dell’Università di Pisa, hanno fatto il punto sull’andamento delle infezioni da microrganismi multiresistenti (MDR) sia in una prospettiva nazionale, sia analizzando quanto fatto nel nostro Paese in aree dove i sistemi di sorveglianza, prevenzione e controllo sono ben strutturati, in particolare Emilia-Romagna e Toscana. Le relazioni si sono soffermate sui programmi già attivi e soprattutto su quelli in fase di organizzazione. D’Ancona ha presentato i dati della sorveglianza delle sepsi da Enterobacteriaceae resistenti ai carbapenemi (CRE): nel 2020 si è registrata una riduzione, benché non sia chiaro se sia reale o invece espressione soltanto di una sottonotifica legata alla crisi pandemica. La situazione è complessa, ma anche con risvolti interessanti e positivi: da un lato si sta aggiornando il sistema di sorveglianza delle batteriemie da CRE e dall’altro si sta implementando il nuovo sistema nazionale di sorveglianza delle batteriemie da Staphylococcus aureus meticillino-resistente (MRSA), forse i due principali patogeni nosocomiali del nostro Paese. Si spera che questi progetti aiutino, con la consapevolezza, a portare a un cambiamento di rotta nell’incidenza di queste infezioni.

Maria Luisa Moro ha focalizzato il problema delle infezioni nosocomiali di Covid-19 iniziando con un’analisi relativa ai Paesi che meglio hanno gestito la pandemia: fra questi si devono ricordare Canada e Corea, due nazioni che avevano già affrontato anni fa la pandemia di SARS e che sono stati in grado di organizzarsi rapidamente così da poter gestire in modo più adeguato il Covid-19. Entrando nel dettaglio del nostro Paese, si sono osservate grandi differenze fra strutture diverse, sia ospedali sia strutture di lungodegenza: in alcune strutture sono stati diagnosticati moltissimi casi mentre altre hanno passato la pandemia praticamente indenni. Queste differenze sono senza dubbio legate a sistemi di prevenzione delle infezioni con differenti livelli di efficacia. Per poter offrire in futuro un sistema protettivo e capace di prevenire le infezioni sarà necessario aumentare le risorse disponibili, umane e finanziarie: forse dal nuovo PNCAR potremo avere finalmente risorse adeguate.

Gaetano Privitera ha fatto il punto sull’andamento delle batteriemie da microrganismi produttori di New Delhi Metallo beta lattamasi (NDM) in Toscana occidentale: il buon sistema di sorveglianza toscano ha permesso di identificare 39 casi di co-infezione Covid-NDM, di cui 36 di origine nosocomiale.

Risulta di buon auspicio lo scarso numero di casi di batteriemie da NDM registrato durante la seconda ondata.



Nella seconda sessione si è trattato il problema della sorveglianza affrontandolo in modo, a nostro avviso, innovativo. Giulia De Angelis, microbiologa dell’Università Cattolica di Roma, ha affrontato i complessi temi delle nuove metodiche microbiologiche per l’identificazione dei microrganismi MDR. Pseudomonas aeruginosa, uno dei patogeni più difficile sia da trattare sia da prevenire, rimane anche uno dei più complessi da identificare, anche se oggi abbiamo a disposizione sistemi sofisticati come la real-time PCR che permette l’identificazione del meccanismo molecolare di resistenza. Per molti microrganismi si possono usare i test cromogenici, rapidi e poco costosi, che vanno poi confermati con esami molecolari.

Alex Friedirich, microbiologo dell’Università di Groningen, e Pamela Barbadoro, igienista dell’Università di Ancona, hanno portato le loro esperienze su una nuova importante area dell’epidemiologia, l’epidemiologia di rete, mostrando i possibili miglioramenti dell’efficienza dei sistemi di controllo e prevenzione quando si analizza il flusso dei pazienti all’interno di un singolo ospedale o, meglio ancora, di un territorio. Friedrich ha introdotto il concetto di unità di forza preventiva, che è regionale ed è caratterizzata da una popolazione di 2-3 milioni di abitanti. Essa è la base territoriale di intervento e agendo su un sistema di queste dimensioni si può ottenere un efficace controllo dei microrganismi MDR. Un aspetto interessante evidenziato da Friedrich è relativo alla trasmissibilità di questi patogeni: anche se l’R0 (cioè il numero di individui che possono essere infettati da un solo individuo durante tutto il suo periodo di infezione) è di solito basso, fra 1 e 2, essi si diffondono rapidamente. Questo fenomeno è probabilmente legato a trasmissioni diverse “parallele” nei diversi ospedali. Entrando nel dettaglio microbiologico, secondo Friedrich l’epidemiologia di rete può essere completata da strumenti di analisi sofisticati come la Whole Genome Sequencing (WGS) per implementare una strategia di identificazione e di follow-up.

Pamela Barbadoro ha poi presentato i dati relativi all’epidemiologia di rete elaborati ad Ancona con la MDRWAtch-MICA-NET, una rete epidemiologica marchigiana nata nel 2013: un’interessante ed importante esperienza condotta in Italia che potrebbe permettere di esportare questo tipo di analisi anche in altre aree del nostro Paese. Riteniamo che questo aspetto possa avere un ruolo centrale per la prevenzione delle ICA e dell’AMR e che la nostra società possa utilmente contribuire a diffonderlo.

In chiusura di sessione Banhu Sinha, microbiologo dell’Università di Groningen, ci ha lanciato verso il futuro non lontano dell’intelligenza artificiale (AI) e del machine learning (ML) sia per la cura delle infezioni sia per le attività di prevenzione e controllo. AI & ML sono al loro esordio nel mondo delle infezioni, ma stanno crescendo rapidamente e probabilmente permetteranno in futuro, quando utilizzate insieme ai nostri fisiologici sistemi cognitivi, di ottenere risultati migliori in minor tempo, in modo più preciso e utilizzando meno risorse. Un aspetto importante legato alle tecnologie informatiche è l’arricchimento della diagnostica, per esempio radiologica, legato alla migliore elaborazione delle immagini, come il tridimensionale. Nella relazione è stato presentato il concetto di “Modello del formaggio svizzero” invertito, derivato dalla gestione del rischio: invece di pensare alla possibilità di un incidente in seguito al verificarsi di una serie di eventi sfavorevoli, viene ipotizzata la possibilità di un’opportunità in caso di una serie di situazioni favorevoli. AI & ML possono aiutare ad identificare questi scenari favorevoli. Una relazione visionaria, ma con una forte dose di trasferibilità alla vita reale, rivolta verso un futuro non troppo lontano.



Nella terza sessione, che chiudeva il primo giorno di lavori, Benedetta Allegranzi dell’OMS ha presentato nel dettaglio la storia delle linee guida sull’uso dei dispositivi di protezione individuale per il Covid-19: una storia breve, solo 20 mesi, ma estremamente intensa e rilevante per le implicazioni di salute pubblica che ciò ha comportato a livello mondiale. Sono stati affrontati nel dettaglio sia gli aspetti relativi alla definizione delle indicazioni, sia quelli sulla disseminazione delle linee guida, un processo che richiede generalmente un anno di lavoro, ma che durane la pandemia si è riusciti a ridurre a 6-12 settimane. La presentazione si è focalizzata soprattutto da un lato sulla differenza di efficacia fra le mascherine chirurgiche e i facciali filtranti (di regola FFP2), oggetto di una Living Rapid Review, una rapida ed efficace revisione mirata ad avere sempre dati aggiornati, e dall’altro sull’uso universale delle mascherine per il personale sanitario. Le analisi condotte fino a settembre dimostrano che mascherina chirurgica e FFP2 hanno un’efficacia sovrapponibile ai fini della tutela degli operatori sanitari e che l’uso universale delle mascherine riduce il rischio di acquisire il Covid-19.



La seconda giornata è stata aperta dalla quarta sessione su antisepsi, disinfezione e sanificazione. Gaetano Privitera e Beatrice Casini, entrambi dell’Università di Pisa, hanno fatto il punto sul ruolo degli interventi sull’ambiente nelle situazioni endemo-epidemiche, e delle tecnologie no-touch, che dall’inizio della pandemia di Covid-19 hanno riscosso un grande interesse. Queste tecnologie devono essere valutate con attenzione per poter arrivare alla scelta più corretta secondo le proprie necessità. Gaetano Privitera ha evidenziato come dalla letteratura emerga che la contaminazione delle mani degli operatori è simile dopo avere toccato un paziente o il suo ambiente, che il 20% delle ICA è legato alla contaminazione ambientale e che dopo i processi di sanificazione standard il 5-30% delle superfici risulta ancora contaminato, spesso da biofilm “secchi”: da qui l’importanza di una attenta disinfezione delle superfici soprattutto in questo periodo pandemico. Ricapitolando il problema, Privitera ritiene che il controllo delle infezioni sia basato quindi, in ordine gerarchico, su tre livelli di intervento: 1) interventi tecnici su ventilazione, percorsi, riorganizzazione strutturale e sanificazione, 2) interventi organizzativi e gestionali e 3) uso dei dispositivi di protezione individuale (DPI).

Beatrice Casini ha proposto una panoramica delle tecnologie no-touch disponibili e si è soffermata soprattutto sugli apparecchi a raggi ultravioletti C, analizzando rischi e opportunità legati all’uso di questi sistemi. Le nuove tecnologie possono essere un valido ausilio nell’implementazione dei protocolli di disinfezione ambientale, ma occorre valutare il loro costo-efficacia in base a diversi fattori quali metodi standardizzati di valutazione dell’efficacia, modalità e tempo di trattamento compatibili con l’attività clinica, disponibilità di personale dedicato e formato, sicurezza degli operatori, impatto ambientale, e soprattutto effettiva riduzione delle ICA.



La lunga quinta sessione è entrata nel dettaglio del controllo e della prevenzione delle ICA e del controllo delle infezioni da microrganismi MDR. Il primo tema affrontato è stato quello dell’infezione del sito chirurgico. Massimo Sartelli, chirurgo generale presso l’Ospedale di Macerata, ha focalizzato l’attenzione su tre aspetti: prescrizione appropriata degli antibiotici, misure di prevenzione e controllo delle infezioni e corretta tecnica chirurgica. Le strategie di buon uso degli antibiotici in ambito chirurgico devono prevedere un adeguato approccio nelle tre le aree di prescrizione: profilassi preoperatoria, terapia empirica e terapia mirata. Questo è possibile, con buoni risultati, all’interno di programmi ospedalieri e regionali di antimicrobial stewardship, dove è però necessaria la collaborazione di numerose figure professionali e di una ampia rete collaborativa intra ed extra-ospedaliera. Sartelli ha poi analizzato i diversi aspetti della prevenzione delle infezioni del sito chirurgico, presentando le raccomandazioni dell’OMS ed entrando nel dettaglio di alcune procedure, in particolare la decolonizzazione dello Staphylococcus aureus negli interventi ortopedici e cardiochirurgici, l’abbandono della tricotomia o l’eventuale uso del clipper, la preparazione del campo operatorio con antisettici in soluzione alcolica e un’appropriata igiene delle mani. La parte successiva della relazione si è focalizzata sulle strategie necessarie per modificare i comportamenti dei sanitari: come sensibilizzare ed educare il personale sanitario utilizzando un approccio comportamentale e facendo un’analisi dei principali fattori ostacolanti. Fra questi si devono ricordare una scarsa sensibilità al problema da parte dei sanitari, la carenza di risorse specifiche, la scarsa diffusione di programmi formativi sul controllo delle infezioni, la carenza di adeguati strumenti informativi e di indicatori per il monitoraggio delle infezioni del sito chirurgico.

Nella successiva relazione Stefano Finazzi, dell’Istituto Mario Negri, e Bruno Viaggi, intensivista al Careggi di Firenze, hanno presentato i dati del sistema di sorveglianza del GiViTI (Gruppo Italiano Valutazione Interventi in Terapia Intensiva) relativi alle sovrainfezioni da microrganismi MDR nelle unità di terapia intensiva (UTI) durante la pandemia Covid-19 con particolare riguardo alle infezioni CVC correlate e alle VAP. Il GiViTI per affrontare in modo adeguato la pandemia ha costruito un nuova parte del sistema di sorveglianza - un nuovo petalo del programma Margherita -, dedicato specificamente al Covid-19. L’analisi del petalo Covid del GiViTI ci permette di avere un quadro sulle ICA nelle UTI che hanno partecipato allo studio con particolare focalità sul sito di infezione e sui microrganismi MDR più coinvolti. Si è osservato un aumento delle polmoniti associate al ventilatore ed un aumento delle batteriemie correlate al catetere venoso centrale (CVC): l’incidenza è stata di 3,5 casi per 1000 giorni catetere nei soggetti con Covid-19 rispetto a 2/1000 giornate catetere nei pazienti non affetti da Covid-19. Infine durante la pandemia si è osservato un aumento delle infezioni da Acinetobacter baumannii e in generale da germi gran negativi e un calo di quelle da MRSA.

Giancarlo Scoppetuolo, del Policlinico Gemelli di Roma e membro del gruppo di studio GAVeCeLT (Gli Avessi Venosi Centrali a Lungo Termine), ha parlato della prevenzione delle infezioni legate agli accessi venosi. Nella sua relazione ha presentato il bundle della prevenzione delle infezioni dei CVC proposta da Pronovost nel 2006 sulle pagine del New England Journal of Medicine, che prevede come fattori indispensabili l’igiene delle mani, le precauzioni di barriera massimali durante l’inserimento del CVC, l’antisepsi con clorexidina, la scelta della sede di inserzione con preferenza della succlavia, la revisione quotidiana sull’indicazione a mantenere il CVC. Il GAVeCeLT ha proposto nuove linee guida che riprendono quelle di Pronovost, si arricchiscono di tre punti e ne rivedono in parte altri: impianto ecoguidato per tutti i CVC, utilizzo di dispositivi senza ago per il fissaggio del catetere, uso di medicazioni semimpermeabili trasparenti. In alcuni studi condotti nel nostro Paese, l’uso di questo nuovo bundle ha determinato un calo significativo delle infezioni. Scoppettuolo ha poi focalizzato l’attenzione sulle novità del bundle nel 2021, e in particolare: a) massima attenzione all’igiene delle mani, da eseguire prima e dopo ogni manovra sul catetere, b) impiego di kit di inserimento contenenti anche le massime protezioni di barriera, c) scelta del sito di inserzione con questo ordine di preferenza, definito anche in base a livello di contaminazione batterica delle diverse aree cutanee: metà braccio, zona sottoclaveare, zona sopraclaveare, collo, inguine. Infine sono stati presentati altri aspetti innovativi come l’uso di siringhe preriempite e sterili per il lavaggio e la chiusura dei CVC e l’utilizzo di una check list per la verifica dell’adesione al bundle.

La relazione successiva è stata tenuta da Marcello Tavio, Presidente della Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali (SIMIT) e direttore del reparto di malattie infettive proprio di Ancona. Tavio ha affrontato il complesso e preoccupante problema dell’emergenza dell’enterococco vancomicino-resistente (VRE) in concomitanza alla pandemia.

Fabio Arena, microbiologo e professore associato all’università di Foggia, ha chiuso la giornata parlando della diagnosi microbiologica di infezione da catetere vascolare centrale. Una corretta diagnosi microbiologica di sepsi correlata al catetere vascolare permette di impostare precocemente la terapia antibiotica adeguata e di gestire nella maniera più appropriata il dispositivo medico. Nel nostro Paese il 39,5% delle batteriemie sono CVC-correlate e questo dato è correlato anche al fatto che in terapia intensiva i CVC sono utilizzati nell’80% delle giornate di degenza. Nella gestione di una sepsi in pazienti con CVC si pone il problema dell’origine dell’infezione e la diagnosi non è semplice. Le metodiche a disposizione sono diverse: 1) la coltura quantitativa o semiquantitativa (tecnica di Maki), 2) la coltura quantitativa da CVC e da vena periferica, 3) il tempo differenziale di crescita fra le emocolture eseguite da CVC e quelle da vena periferica, dove una differenza >120 minuti da CVC correla con un’infezione a partenza dal catetere;
4) la colture del sangue e del pus del sito di inserzione.



La sesta sessione plenaria ha affrontato il tema dell’impatto del Covid-19 sulle terapie intensive. La giornata è stata aperta dal Prof. Luciano Gattinoni, intensivista di grande fama che ora lavora in Germania a Goettingen che ha presentato i dati relativi all’impatto del Covid-19 nelle terapie intensive in Germania. I dati relativi alla letalità mostrano valori più bassi rispetto a quanto osservato in Italia: 2,2% in Germania rispetto a 2,8% nel nostro Paese. Partendo dal dato osservato, che la mortalità nelle unità di terapia intensiva varia in modo notevolissimo, fra il 10 e il 90%, come spiegare queste differenze? Gli aspetti da considerare sono due: l’organizzazione sanitaria del Paese e il tipo di trattamento del Covid-19. Per quel che riguarda l’organizzazione sanitaria in primo luogo si deve considerare il rapporto esistente tra ospedale e territorio, fra medici ospedalieri e medici di base, ma anche il numero di medici e infermieri e gli investimenti statali a favore del Servizio Sanitario: le differenze fra i diversi sistemi sono senza dubbio notevoli. Molto complessa è l’analisi relativa al tipo di trattamento utilizzato, basato sull’uso sia di terapia farmacologica, con anticorpi neutralizzanti, antivirali, eparina, corticosteroidi, antagonisti dei recettori delle interleuchine, sia di terapia respiratoria che prevede l’uso di ossigeno convenzionale, ossigeno ad alti flussi, CPAP (Continuous Positive Airway Pressure - Pressioni continua positiva delle vie aree), ventilazione non invasiva, ventilazione invasiva ed ECMO (Extra Corporeal Membrane Oxygenation - Ossigenazione extracorporea a membrana). La patogenesi del Covid-19 non è completamente chiarita e vi sono ancora dubbi sul tipo di ARDS (Acute respiratory distress syndrome - Sindrome da Distress Respiratorio Acuto)che caratterizza questa patologia e dal tipo di patologia deriva poi il trattamento. Per una ARDS classica la cura è ormai standard mentre per una ARDS atipica, come sembra essere il Covid-19, è forse necessario un trattamento personalizzato.

Daniela Pasero, Professore Associato di Anestesiologia presso l’Università di Sassari, nella sua relazione ha focalizzato l’attenzione su come le terapie intensive italiane hanno affrontato lo tsunami SARS-CoV-2. Durante la pandemia si è passati da 8,6 posti letto di TI/100.000 abitanti a 14, un cambiamento epocale mai verificatosi precedentemente nella Storia della medicina moderna. I problemi che si sono dovuti affrontare nella gestione delle UTI sono numerosi e complessi:

— allocazione dei pazienti positivi che sviluppavano il Covid-19 con evoluzione critica;

— adeguatezza delle terapie intensive ad accoglienza dei pazienti critici affetti da Covid-19;

— presenza di aree a pressione negativa e numero di ricambi d’aria adeguati per la protezione degli operatori sanitari;

— disponibilità di un numero adeguato di DPI;

— formazione del personale sanitario all’uso dei DPI;

— corretta gestione dei pazienti critici all’interno dell’area di isolamento;

— adeguatezza dei sistemi di monitoraggio;

— prevenzione delle ICA.

Nelle opportune sedi istituzionali sono state valutate le disponibilità di ventilatori e l’organizzazione di sistema per gestire i pazienti con Covid-19 e insufficienza respiratoria. Un aspetto centrale è stato la identificazione di aree dove aprire nuove UTI, spesso utilizzando le sale operatorie. La società di riferimento degli anestesisti, la Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI), si è impegnata nella stesura di documenti e linee guida per cercare di rendere più semplice e uniforme possibile l’immane lavoro degli intensivisti. Questo documento ha affrontato numerosi aspetti della gestione del Covid-19, inclusi il buon uso degli antibiotici e il controllo e la prevenzione delle ICA.

Stefani Finazzi, dell’Istituto di Ricerca Mario Negri di Bergamo, ha poi tenuto una relazione sui dati del GiViTI relativi alle infezioni in terapia intensiva durante la prima e la seconda ondata pandemica. Sono stati presentati dati relativi a oltre 4.500 pazienti affetti da Covid-19 ricoverati in terapia intensiva, di cui tre quarti maschi, e di età superiore ai 65 anni in oltre la metà dei casi. L’analisi ha permesso di identificare alcuni importanti aspetti e in particolare si è osservata una significativa diversità di trattamento tra le diverse ondate: a) l’idrossiclorochina è stata utilizzata nel 90% dei casi nella prima ondata e in quasi nessun paziente nella seconda, b) i corticosteroidi sono stati prescritti nella metà dei casi nella prima ondata e in oltre il 90% nella seconda, c) l’eparina è stata utilizzata in oltre il 90% dei pazienti e con dosi più elevate - >6000 UI/die - durante la seconda ondata, d) gli antivirali sono stati somministrati in tre quarti dei casi durante la prima ondata e nel 20% nella seconda. L’analisi relativa all’uso di farmaci sperimentali evidenzia una criticità del sistema: un quarto dei pazienti hanno ricevuto farmaci sperimentali nella prima ondata ma solo il 10% nella seconda: un indice di una bassa capacità di organizzazione di protocolli scientifici nel nostro Paese. Altri aspetti rilevanti osservati sono stati un’alta mortalità, di poco inferiore al 50%, una casistica diversa tra le regioni e tra le UTI e una forte correlazione tra mortalità e risorse disponibili e stress da eccesso di ricoveri in UTI.



Nella settima e nell’ottava sessione si sono trattati gli aspetti medico legali e di medicina del lavoro.

Il Dr. Matteo Marchesi, responsabile dell’Unità di Medicina legale dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, ha affrontato il tema piuttosto vasto delle problematiche della responsabilità professionale e del contenzioso legate alle ICA, ai batteri MDR e a Covid-19. L’analisi è partita dalle novità della Legge Gelli e delle recenti sentenze che ci indicano come l’applicazione delle procedure rilevate dai documenti disponibili sulle ICA, dalle Circolari del 1985 e del 1988 alle più recenti linee guida, debba essere monitorata e documentata per poter superare il contenzioso. Il punto di vista del medico legale ci ha permesso di analizzare aspetti importanti nella vita del SSN, valutando se la difesa per il contenzioso può essere un’opportunità per il controllo delle ICA e degli MDR e/o viceversa. Inoltre si è affrontato il cambiamento oggi in corso in rapporto alla responsabilità professionale durante la pandemia di Covid-19.

Paolo Durando, professore di medicina de lavoro presso l’Università di Genova, ha analizzato il tema degli aspetti di prevenzione e protezione dell’infezione da SARS-CoV-2 nel personale sanitario. Il primo aspetto affrontato è stato la prevenzione primaria del Covid-19, che deve essere basata sulla valutazione del rischio e sull’introduzione di adeguate misure. La pandemia può amplificare altri rischi professionali quali la violenza, lo stigma, le molestie, i notevoli carichi di lavoro e il prolungato uso di DPI. Anche in ambito pandemico, o forse soprattutto in questo ambito, il datore di lavoro ha la responsabilità di accertarsi che tutte le misure preventive e organizzative vengano applicate mentre il sanitario deve seguire le regole di sicurezza e protezione. Già nelle prime fasi della pandemia sono state date dal Ministero della Salute indicazioni per il contenimento della pandemia, in particolare per i lavoratori più fragili. Il Covid-19 ha avuto un grande impatto sui lavoratori causando, al 30/6/2021, 682 morti – di cui un quarto fra gli operatori sanitari e socio-sanitari, su un totale di oltre 175.000 infezioni-infortuni. In ambito occupazionale si sono verificati cluster ed epidemie di casi di Covid-19 fra gli operatori: le strutture più colpite sono state le lungo-degenze e gli ospedali. I fattori associati a questo rischio sono stati in particolare il contatto stretto o diretto con i casi, un insufficiente o errato uso di DPI, il confinamento del lavoro in spazi interni, per esempio in radiologia, lo spazio mensa condiviso. La piramide invertita della prevenzione e del controllo delle infezioni in ambito sanitario vede diverse strategie, partendo dalla eliminazione del rischio, alla sostituzione del rischio, all’isolamento degli operatori attraverso strategie ingegneristiche, al cambiamento delle modalità di lavoro ed infine all’uso dei DPI. I DPI devono infatti essere considerati come una misura efficace per la protezione dell’operatore sanitario solo se inseriti all’interno di un più ampio insieme di interventi che comprenda controlli amministrativi e procedurali, ambientali, organizzativi e tecnici nel contesto assistenziale sanitario. Durando ha poi presentato i risultati di uno studio condotto in Italia su oltre 9.000 sanitari che evidenzia come l’uso della maschera chirurgica o dei facciali filtranti tipo FFP2 e FFP3 sia lo strumento di prevenzione più efficace nel ridurre il rischio di ammalarsi di Covid-19. Il rischio di infezione nel personale sanitario si riduce in modo massimale quando sia l’operatore sia il paziente indossano la mascherina. Un’altra strategia di importanza primaria è ovviamente il vaccino anti-SARS-CoV-2: gli operatori sanitari sono stati identificati come un gruppo da immunizzare con priorità assoluta nelle fasi iniziali della campagna vaccinale nazionale. Durando ha analizzato nel dettaglio i vari aspetti che hanno causato tanta soddisfazione ma anche tanti dubbi e polemiche in questo ultimo anno: dalla rapidità di produzione dei vaccini, legata ad una razionalizzazione del processo, al tipo di vaccini prodotti, in particolare la novità dei vaccini a m-RNA, all’efficacia. Si è poi analizzato il problema critico della durata limitata dell’efficacia del vaccino, con una caduta significativa della protezione dopo 4 mesi circa e quindi con l’indicazione a eseguire la terza dose, inizialmente prevista solo per i pazienti fragili ma poi estesa a tutti. Un interessante spunto è stato anche il riferimento alla Carta di Pisa delle vaccinazioni negli operatori sanitari, con l’indicazione alla obbligatorietà del vaccino in casi particolari, “laddove altre azioni mirate al raggiungimento degli obiettivi di copertura non abbiano funzionato”: forse esattamente il caso dei vaccini per il Covid-19.



L’ultima giornata di congresso è iniziata affrontando le tematiche microbiologiche del mondo nuovo in cui stiamo entrando: stewardship diagnostica, stewardship antimicrobica e nuovi antibiotici. Sulla base dei dati disponibili si dovranno scegliere i test e la terapia adeguati per il paziente e l’ecosistema. Un obiettivo senza dubbio al passo con i tempi anche se molto complesso.

La prima relazione della nona sessione è stata tenuta da Gianni Rossolini, direttore della microbiologia dell’Ospedale Careggi di Firenze, che ha affrontato il problema della stewardship diagnostica: dopo la valutazione clinica si deve identificare l’esame corretto per il paziente da eseguire nel momento più opportuno. L’esame fornirà una risposta rapida che, attraverso una interpretazione corretta, permetterà di impostare l’antimicrobico adeguato nel tempo adeguato. Un processo virtuoso a cui dovremo tutti mirare nei prossimi tempi. Alla base di questi cambiamenti stanno le grandi innovazioni tecnologiche della microbiologia: le analisi proteomiche / glicomiche con il MALDI-ToF (Matrix-Assisted Laser Desorption/Ionization Time of Flight) o i saggi immunochimici a flusso laterale (LFIA), la produzione di antibiogramma (Antimicrobial Susceptibilty Testing - AST) fenotipico rapido con strumenti di imaging avanzato, l’analisi genotipica con identificazione e AST molecolari (Nucleic Acid Amplification Test - NAAT), la fast prep per emocolture. Con l’uso di questi sistemi il referto finale ad esempio dell’emocoltura può essere disponibile in poco più di 24 ore contro le 72 necessarie con i sistemi tradizionali. Il processo analitico mette in evidenza l’importanza di individuare correttamente il tipo di carbapenemasi presente, in quanto carbapenemasi diverse presentano sensibilità diversa agli antibiotici. Il processo di analisi dei campioni può avere inoltre caratteristiche diverse secondo la gravità del paziente, fornendo risultati in tempi diversi e con livelli di approfondimento diversi. Le tecnologie basate su analisi genotipiche rappresentano oggi un’area importante di innovazione. I vantaggi sono numerosi: rapidità della risposta, ottenibile direttamente anche dal campione clinico, sensibilità, automazione, analisi di popolazione (polimicrobismi / varianti). Esistono però ovviamente anche dei limiti che è indispensabile tenere in considerazione: costi elevati, necessità di strumenti dedicati, copertura target-dipendente (pannelli sindromici), fenotipo di resistenza dedotto, e disponibile solo per alcuni antibiotici (non viene eseguita la MIC). In conclusione, oggi esistono numerose nuove tecnologie rapide disponibili in diagnostica batteriologica che forniscono la possibilità di ridurre considerevolmente i tempi di risposta. Questi sistemi hanno caratteristiche diversificate e questo implica la possibilità di personalizzare il percorso diagnostico (diagnostica combinatoriale). La stewardship diagnostica mostra una crescente importanza e potrà avere in futuro un impatto per un posizionamento appropriato ed efficace delle nuove tecnologie a supporto della stewardship antibiotica.

Nella relazione successiva il Dr Leonardo Pagani, infettivologo presso l’Ospedale centrale di Bolzano e responsabile del programma di antimicrobial stewardship in Alto Adige, ha presentato una relazione sul tema della antibiotic stewardship al tempo della pandemia. Il primo punto affrontato da Pagani è relativo allo stato dell’arte ed alle prospettive future in termini di AMR: ci troviamo in una situazione complessa, dove il numero di infezioni da germi MDR è superiore alla somma di influenza, tubercolosi e HIV/AIDS, tre fra le patologie infettive più importanti a livello planetario. Una stima fatta nel 2014 ipotizza circa 10 milioni di morti l’anno per infezioni da germi MDR nel 2050, con un costo elevatissimo, oltre che umano, anche finanziario, stimabile in 100.000 miliardi di dollari. La pandemia di Covid-19 porta con se numerosi cambiamenti ed alcuni di questi sono associati ad un aumento del rischio di diffusione dell’AMR, quali ad esempio l’elevato uso di antibiotici nei pazienti affetti da Covid-19, il blocco delle attività di antimicrobial stewardship legato alla pandemia, la difficoltà di adesione alle procedure di prevenzione e controllo delle infezioni (IPC), la carenza di personale dedicato ai problemi di IPC, la possibile riduzione dell’adesione all’igiene delle mani secondaria all’uso delle precauzioni da contatto, le difficoltà del laboratorio di microbiologia di fornire dati in modo tempestivo e regolare per il grande impegno legato ai tamponi per SARS-CoV-2. D’altra parte alcuni aspetti della pandemia potrebbero avere un impatto favorevole alla diffusione dell’AMR: la relativa rarità delle sovrainfezioni batteriche nei pazienti affetti da Covid-19, la posticipazione degli interventi chirurgici e quindi il ridotto uso di antibiotici per la profilassi antibiotica pre-operatoria, il minor numero di ricoveri di pazienti affetti da patologie croniche e quindi il minor uso di antibiotici per questi pazienti, l’isolamento dei pazienti affetti da Covid-19, la maggior sanificazione degli ambienti ospedalieri. Per combattere le problematiche relative al cattivo uso di antibiotici è necessario organizzare dei programmi di antimicrobial stewarship (ASP), in grado di ottimizzare l’uso degli antibiotici in termini di scelta della molecola, dose, via di somministrazione e durata e di ridurre l’uso inappropriato di queste preziose molecole: l’attivazione di ASP, insieme ai programmi di IPC, all’igiene delle mani e alla sorveglianza, può permettere di migliorare il problema dell’AMR. I dati relativi all’Alto Adige mostrano percentuali di meticillino-resistenza dello Staphylococcus aureus inferiori al 10% e in calo, rispetto al 35,6% nazionale, così come percentuali di resistenza ai carbapenemi di Klebsiella pneumoniae del 7%, rispetto al 28,5% nazionale. L’analisi dei dati locali evidenzia durante il periodo pandemico un incremento degli isolamenti nei tamponi di screening di enterobatteri produttori di ESBL e di AmpC e di VRE, mentre MRSA risulta stabile. Viceversa negli isolati clinici si è osservato un calo dei VRE, un aumento di MRSA e degli enterobatteri ESBL, mentre K. pneumoniae resistente ai carbapenemi è rimasta stabile. L’esperienza di questo periodo ci lascia alcuni messaggi da non sottovalutare: si è osservata una diminuzione dell’aderenza alle misure di IPC mirate ai microrganismi MDR, non è stato possibile organizzare il lavoro infermieristico per coorti, la formazione di nuovi membri dello staff è stata troppo breve, la pressione fisica e psicologica sul personale sanitario è stata elevata. D’altra parte si sono avute anche buone opportunità: potenziamento a livello ospedaliero delle attività di collaborazione, rinforzo di procedure di IPC, opportunità educative per i membri del personale, identificazione e implementazione di nuove azioni basate su quanto appreso sul campo. Da tutti questi dati emerge la necessità di cercare di non sospendere i programmi di AS neppure durante questa lunga pandemia.

Il prof Pierluigi Viale, direttore dell’Istituto di Malattie Infettive del S. Orsola-Malpighi di Bologna, ci ha poi parlato delle novità della terapia antibiotica partendo da un caso clinico di un paziente con sepsi e polmonite da Acinetobacter baumannii resistente ai carbapenemi, con sensibilità solo alla colistina. Le difficoltà legate al trattamento di questo paziente sono notevoli in quanto le concentrazioni terapeutiche di colistina sono di 2 mg/L, uguali a quelle associate alla tossicità da farmaco: raggiungere la concentrazione adeguata è quindi molto complesso e anche utilizzando la dose di carico i tempi sono piuttosto lunghi (>36 ore). È evidente quindi la necessità di avere nuovi farmaci a disposizione in particolare efficaci sui diversi germi gran negativi resistenti ai carbapenemi: Enterobacterales produttrici di KPC, oppure di NDM od OXA48, ma anche Pseudomonas aeruginosa, Acinetobacter baumannii e Stenotrophomonas maltophilia, con una possibilità di cura ad oggi molto limitata soprattutto per questi ultimi due germi e per le NDM. Un aspetto rilevante da considerare è la disponibilità di studi specifici per i nuovi farmaci: mentre su meropenem-vaborbactam, imipenem/relebactam, cefiderocol e sulla plazomicina sono stati condotti studi arruolando pazienti con infezioni causate da germi con meccanismi specifici di resistenza, per ceftazidime-avibactam, ceftolozane-tazobactam e fosfomicina abbiamo studi sulle patologie d’organo ma non specifici per i singoli patogeni. A fronte di una notevole urgenza nella disponibilità di nuove molecole abbiamo buoni dati in vitro, ad esempio sul cefiderecol – ottima efficacia nei confronti dei gran negativi multiresistenti – ma i dati in vivo sono da migliorare, le domande senza risposte sono ancora molte e le problematiche relative alla possibile selezione di resistenza nonchè ai costi sono significative. Le nuove molecole devono essere utilizzate al meglio, facendo riferimento alle principali indicazioni sul buon uso degli antibiotici:

1. Iniziare e scegliere il trattamento utilizzando sempre un approccio basato sulla gravità.

2. Non essere impulsivi nell’iniziare la terapia antimicrobica.

3. Aggiornare i dati epidemiologici locali stratificandoli per contesti specifici.

4. Collaborare strettamente con il laboratorio di microbiologia nella vita quotidiana.

5. Evitare prescrizioni ridondanti.

6. Essere parsimoniosi con i regimi combinati.

7. Essere consapevoli dei problemi di farmacocinetica/farmacodinamica (PK/PD) e ricordare il valore del dosaggio terapeutico dei farmaci (TDM).

8. Rivalutare precocemente le prescrizioni degli antibiotici.

9. Ridurre la durata della terapia.

10. Creare team multidisciplinari per setting specifici, sindromi.

11. Identificare l’area migliore di utilizzo nella terapia dei nuovi farmaci e preparare algoritmi/bundle locali.

In particolare si dovranno considerare due aspetti di grande importanza: la riduzione della durata della terapia antibiotica e l’identificazione dell’area migliore di utilizzo nella terapia dei nuovi farmaci. Infine, deve essere posta estrema attenzione alla scelta della terapia antibiotica nel paziente critico e in quello fragile.

Nella terza relazione della mattina la Dr.ssa Maria Mongardi, infermiera e presidente dell’ANIPIO, ha affrontato il problema del buon uso degli antibiotici dal punto di vista infermieristico, analizzando gli aspetti più rilevanti e le criticità legate alla somministrazione di questi farmaci. Gli infermieri sono l’elemento dell’équipe clinica con contatti più frequenti con i pazienti e gli aspetti rilevanti e le criticità legate alla somministrazione dei farmaci sono numerose.

La lunga sessione sul buon uso degli antibiotici è stata chiusa affrontando il tema del ruolo del farmacista ospedaliero nella gestione della terapia antimicrobica da parte di Maria Ruscica, direttrice della farmacia ospedaliera dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Enna. Da uno questionario europeo risulta che i due terzi dei farmacisti ospedalieri sono coinvolti nelle attività dell'Azienda Sanitaria Provinciale (ASP). La European Association of Hospital Pharmacists (EAHP) ha proposto un position paper che:

1. invita i governi nazionali e i gestori del sistema sanitario a utilizzare le conoscenze specialistiche e le conoscenze dei farmacisti ospedalieri nella gestione multiprofessionale dell’ASP;

2. raccomanda l’applicazione universale delle misure di prevenzione e controllo delle infezioni da parte dell’European Centres for Disease Prevention and Control (ECDC) e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) tra gli operatori sanitari;

3. sostiene fermamente il controllo normativo e la corretta attuazione delle misure nel settore veterinario e agricolo a livello europeo, nazionale e locale;

4. sollecita maggiori investimenti per sostenere lo sviluppo di proposte innovative e l’incoraggiamento di progetti di ricerca basati sulla pratica per lo studio di nuovi ambiti di controllo delle malattie infettive, come l’immunoterapia, e per ottimizzare il rapporto costo-efficacia dei sistemi di sorveglianza sul consumo e sulla resistenza agli antibiotici;

5. esorta i governi a prendere accordi affinché gli antibiotici essenziali siano mantenuti sul mercato con scorte di emergenza e con l’abilitazione alla produzione alternativa da parte dei farmacisti ospedalieri ove necessario.

Il farmacista clinico ha un ruolo nell’ASP in generale ed in particolare ha l’obiettivo di favorire la scelta del farmaco, per ridurre la selezione di resistenze, e della dose corretta per migliorare l’esito delle cure, di ottimizzare la durata per ridurre la tossicità e di scegliere la migliore via somministrazione per ridurre i costi del trattamento. Di grande importanza sono gli aspetti di farmacocinetica/farmacodinamica (PK/PD) per l’ottimizzazione della cura, ricordando la suddivisione in due classi degli antibiotici in funzione delle loro caratteristiche farmacocinetiche: i farmaci tempo-dipendenti, come le betalattamine e i glicopeptidi, e quelli dose-dipendenti come gli aminoglicosidi. Un aspetto importante nel gestione della terapia antibiotica in ospedale è il passaggio dalla somministrazione endovenosa a quella orale, che permette di ridurre gli effetti collaterali legati alla cura, aumenta il comfort del paziente e riduce anche i costi. Le indicazioni al passaggio alla terapia orale sono ampie ma hanno ovviamente delle limitazioni in particolare nei pazienti con malattie infettive molto gravi, quali la meningite o gli stati di immundepressione. Infine dobbiamo ricordare il ruolo trasversale del farmacista nella gestione della pandemia, in particolare per l’approvvigionamento dei DPI, della diagnostica e soprattutto dei vaccini ma anche degli antivirali e dei farmaci immunomodulanti.



La decima e ultima sessione del congresso ha analizzato le problematiche relative alle strategie di prevenzione della trasmissione di SARS-CoV-2 in endoscopia.

Il rischio di esposizione a SARS-CoV-2 nel personale che opera in endoscopia è stato riconosciuto come potenzialmente elevato, sia per la formazione di aerosol che per la contaminazione delle superfici; per questo motivo alcune linee guida sconsigliano l’indagine endoscopica su pazienti sintomatici anche se necessaria per la diagnosi ad esempio di una neoplasia maligna.

Muovendosi in questo ambito, il Prof. Alessandro Repici, direttore del dipartimento di gastroenterologia dell’ospedale Humanitas di Milano, ha analizzato i criteri per la stratificazione dei pazienti a rischio per la ripresa dell’attività endoscopica in condizioni di sicurezza. La ri-organizzazione dei servizi di endoscopia durante la pandemia Covid-19 è stata fondamentale per evitare gli effetti negativi dovuti ai ritardi diagnostici, inevitabili durante la prima ondata epidemica. Il Prof. Repici ha quindi rimarcato quali raccomandazioni sono state incluse nelle linee guida internazionali in relazione alla necessità dei test Covid-19 per lo screening dei pazienti da sottoporre ad endoscopia, all’utilizzo dei corretti dispositivi di protezione individuale, alla organizzazione dei percorsi e all’adozione delle strategie per il controllo dell’infezione, in particolare nelle aree ad alta prevalenza. Repici ha mostrato, attraverso un video, come la Gastroenterologia dell’ospedale Humanitas ha adottato queste raccomandazioni.

La relazione successiva è stata tenuta dalla Dr.ssa Alessandra Guarini, presidente della Associazione Nazionale Operatori Tecniche Endoscopiche e Associazione Nazionale Infermieri di Gastroenterologia e Associati (ANOTE/ANIGEA), che lavora presso il Presidio Nuovo Regina Margherita di Roma. La Dr.ssa Guarini ha affrontato il tema delle procedure operative per una organizzazione in sicurezza dei percorsi e delle pratiche di ricondizionamento degli endoscopi. La pandemia ha reso necessaria una rielaborazione delle attività e in particolare sono stati affrontati numerosi problemi che dobbiamo gestire oggi, fra cui quelli relativi alla capienza delle sale d’attesa e delle sale risveglio, ai tempi necessari per le prestazioni, in particolare per la vestizione/svestizione, al tempo di recupero del paziente nella fase post-esame in sedazione, al percorso separato per il paziente positivo, alla sala endoscopica separata possibilmente a pressione negativa, al bagno dedicato ai pazienti positivi e infine alla sanificazione della sala dopo ogni esame. Per le gestione della sala endoscopica dove eseguire le procedure su pazienti affetti da Covid-19, sala che dovrebbe (in teoria deve …) essere dedicata, le raccomandazioni prevedono in primis di eseguire formazione sull’utilizzo dei DPI, di utilizzare endoscopi, colonna ed elettrocoagulatore dedicati ai pazienti affetti da Covid-19, di considerare il broncoscopio monouso se necessario, di utilizzare una guaina di copertura per la colonna e di sanitizzare la colonna e le altre apparecchiature con ipoclorito di sodio 0,5% nonchè di disinfettare i monitor con salviettine imbevute di soluzione alcolica al 70%. Il reprocessing prevede una detersione degli endoscopi subito dopo la fine della procedura e il loro successivo inserimento in contenitori chiusi identificati come sporchi/contaminati e trasportati separatamente dagli altri endoscopi. Al fine di minimizzare il rischio di contaminazione microbica e chimica, il reprocessing dovrebbe essere eseguito in una sala dedicata. Il lavaggio manuale deve prevedere l’uso di soluzioni monouso e deve essere effettuato mantenendo l’endoscopio sotto il livello dell’acqua. È consigliato l’uso dell’acido peracetico, efficace anche contro il poliovirus o l’adenovirus, molto più resistenti del coronavirus. La fase successiva, quella dell’asciugatura e dello stoccaggio, è essenziale poichè l’umidità facilita la crescita microbica. Lo stoccaggio deve avvenire in un ambiente pulito, in un armadio a norma UNI EN 16442. Uno studio che ha valutato le criticità della riprocessazione ha evidenziato come le aree con la più alta criticità sono la pulizia, lo stoccaggio e l’esecuzione degli esami microbiologici.

Un aspetto interessante e innovativo è la modifica delle procedure di reprocessing implementate per far fronte alla diffusione delle Klebsielle pnenumoniae resistenti ai carbapenemi: utilizzo dello scovolino monouso, lava-disinfettatrice, armadi di stoccaggio. Per quanto riguarda infine i controlli microbiologici i tempi sono definiti in base al tipo di strumento, i controlli vanno effettuati su tutti i canali dell’endoscopio e gli endoscopi non devono essere utilizzati fino all’esito della coltura.

La Prof.ssa Beatrice Casini, dell’Università di Pisa ha chiuso il congresso affrontando i criteri per la scelta degli accessori monouso in endoscopia e in particolare degli endoscopi monouso in epoca Covid-19. Il tema è complesso e l’analisi di vantaggi e svantaggi dell’utilizzo di questo tipo di dispositivi è senza dubbio importante al fine di definire quali sono le raccomandazioni e la sostenibilità economica ed ambientale di questa strategia. La scelta di ridurre l’uso di questi dispositivi solo ai pazienti critici (trapiantati, oncologici, immunosoppressi, etc.), al fine di eliminare il rischio di cross-contaminazione, o di utilizzarli sui pazienti colonizzati/infetti da microrganismi multi-farmaco resistenti, per evitare la contaminazione degli strumenti pluriuso, oppure l’uso durante le procedure eseguite in emergenza, per eliminare il rischio di ritardi nell’esecuzione del reprocessing, sono state definite come le strategie più appropriate per il controllo del rischio infettivo e per ridurre l’impatto ambientale derivante dallo smaltimento dei rifiuti speciali. 


Ringraziamo a nome di tutti i partecipanti, dei soci e dei relatori Marina Festinese, Enrica Zanetti, Valentina Cacciapaglia 
per tutto il lavoro fatto per la buona riuscita del congresso.