Pensieri e parole
(fragilità a proposito di SARS CoV-2)

Thoughts and words (frailty about SARS CoV-2)


Claudio Farina

UOC Microbiologia e Virologia
ASST “Papa Giovanni XXIII”,
Bergamo


Premessa

Tempo fa mi è stato chiesto di scrivere qualcosa che c’entrasse tra COVID-19 e laboratorio. Credo che alla base della richiesta ci fosse il fatto che Bergamo ha inaugurato – non sola, per la verità – la tragedia del COVID-19 in Europa: e, così, il laboratorio di Microbiologia e Virologia del Papa Giovanni XXIII è stato, nel suo piccolo, un esempio quando altri osservavano la tragedia da lontano, molti solo alla tv. Non è facile rispondere alla richiesta, a meno di cadere nel tecnico.

Certo, a un microbiologo si chiede di guardare il mondo dal laboratorio. Ma COVID-19 è stato, di suo, un “laboratorio”: di esperienze, di considerazioni, di vita. È stato un autentico “osservatorio” che ha superato i confini dell’esperienza che da sempre ne contraddistingue l’essenza.

Così, provo a ripercorrere un anno di SARS CoV-2: un anno vissuto con particolare intensità.

Dopo dodici mesi, la straordinarietà diventa routine: come dire che la cronaca diventa storia. Si può cominciare a riflettere, a valutare criticamente l’accaduto e a trarre orientamenti per il futuro.

Certo, un anno è stato, da gennaio a dicembre: alcune parole chiave possono fare da fil rouge a un racconto che sa molto – dopo la prima ondata di COVID-19 quando la seconda non mostra segni particolari di cedimento dal plateau su cui si è assestata – di fragilità. Ecco, questa è una storia, sostanzialmente, di fragilità: individuali, collettive, di sistema, culturali, scientifiche, comunicative, economiche e sociali. È una storia lunga una vita.

Parole chiave, quindi, per descrivere in un anno una vita: “pensieri e parole”, perché quest’anno è trascorso veloce, come la vita che abbiamo attraversato. Come per la vita, le interpretazioni sono varie: ognuno ha le sue. Mi sono attenuto a questa indicazione, con qualche ritornello in musica (cominciando proprio da un titolo di Lucio Battisti), per passare in rassegna le stagioni dell’ultimo anno.


Inverno

Verrebbe da dire che la storia comincia sempre da lì. Sessantacinque anni fa Renato Carosone cantava: “Stu fungo cinese”.


È giunta da Pechino,

int’ ‘a ‘nu vaso,

‘na cosa misteriosa…

Quanno ‘na sposa
beve l’infuso
sente ‘na cosa e dice: Uè!…

Nun piglià penicillina,
manco ‘a streptomicina,
piglia ‘o fungo ogni matina…


Certo era un fungo, quello, che si cresceva nei vasi: era la grande moda che imperversava alla metà degli anni ’50 del secolo scorso, quando migliaia di famiglie italiane coltivavano uno strano blob, biancastro e gelatinoso, liquido e zuccherato, dalle supposte proprietà taumaturgiche, vero toccasana per tutte le malattie. Tutti ne celebravano le virtù salutifere, anche la “Domenica del Corriere” gli dedicò una copertina. Solo “La Provincia”, giornale di Cremona, andava controcorrente, sentenziando che: “Il fattore di maggior efficacia nella cura con the del fungo miracoloso è la suggestione, la quale può operare quei miracoli che invano chiederemmo a medicamenti ben più efficaci di questo cattivo aceto” (17 ottobre 1954). Renato Carosone, geniale musicista napoletano, ne faceva poi un’ironica presa in giro…

A parte la personale – e ben nota – predilezione per i funghi (non solo per i saccaromiceti del fungo cinese) e la simpatia per una filastrocca in musica accattivante e spiritosa, c’è qualcosa di preveggente in quella canzonetta napoletana: “È giunta da Pechino” ‘sta “cosa misteriosa” che tutti conoscono e che diffonde – come solo i virus sanno fare – in modo pandemico, contagiando i comportamenti di mezza Italia, in una catena di sant’Antonio vera e propria. Solo i cremonesi (ma potrebbero essere stati anche i lodigiani o i bergamaschi) hanno resistito, come se all’ombra del Torrazzo già fossero preparati a subodorare l’infida capacità destruente di ciò che arrivava dall’Oriente…


Così è stato il mese di gennaio 2020. Si legge sul portale dell’Istituto Superiore di Sanità che: “Il 9 gennaio 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato che le autorità sanitarie cinesi hanno individuato un nuovo ceppo di coronavirus mai identificato prima nell’uomo, provvisoriamente chiamato 2019-nCoV e classificato in seguito ufficialmente con il nome di SARS-CoV-2. Il virus è associato a un focolaio di casi di polmonite registrati a partire dal 31 dicembre 2019 nella città di Wuhan, nella Cina centrale. Il 30 gennaio, l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha confermato i primi due casi di infezione da COVID-19 in Italia...”. Gennaio è stato vissuto da tutti – tecnici e professionisti inclusi – come il mese dell’Oriente lontano, in cui un virus sconosciuto si era impadronito di una città sconosciuta ai più, in Cina: lì sarebbe rimasto, come in passato era successo per altre virosi. Nell’Occidente europeo ne sarebbe arrivata solo l’eco, non c’è dubbio…

A Maxim, barista del cappuccino mattutino all’ospedale, si ripeteva – come un mantra – ogni giorno: “Tranquillo: da noi non ci sono casi, non arriverà… è in Cina!”. Il 30 gennaio È giunta da Pechino ‘sta cosa misteriosa: “non diffonde… non diffonderà… nessuno la conosce se non i cinesi”. Anche volendo, come si potrebbe fare a identificare malattia e virus?


Così è stato anche il mese di febbraio 2020. Si legge sul portale dell’Istituto Superiore di Sanità che “L’11 febbraio, l’OMS ha annunciato che la malattia respiratoria causata dal nuovo coronavirus è stata chiamata COVID-19 … e il 21 febbraio l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha confermato il primo caso autoctono in Italia”.

Anche febbraio è stato vissuto da tutti – tecnici e professionisti inclusi – come in una bolla di inquieto scetticismo: i cinesi ormai comunicano in modo trasparente (non come in passato quando a preoccupare era la SARS) i loro dati, tutti gli scienziati del mondo fanno corpo unico, le riviste scientifiche hanno introdotto un percorso privilegiato per rendere fruibili le conoscenze man mano che i progressi avanzano, il virus è stato isolato dai virologi dello Spallanzani e il suo genoma è stato messo a disposizione del mondo scientifico. Lo scetticismo inquieto è però venato da uno scaramantico ottimismo… sono, comunque, individuati – regione per regione – i laboratori di riferimento a cui inviare, nel caso ce ne fosse bisogno, i campioni biologici per la ricerca molecolare del virus che ha ancora il nome provvisorio di 2019-nCoV… Non solo il nome è provvisorio: anche la malattia, che nessuno ha mai visto, è una realtà aleatoria…  

Ai partecipanti ad un convegno sul tema, a metà febbraio, si continuava a ripetere lo stesso mantra: “Tranquilli: da noi non ci sono casi, non arriverà… è in Cina! Se poi dovesse arrivare, basterà stare attenti. Il nostro mondo saprà far fronte da subito al virus… Certo, però, che se dovesse esplodere come in quella città dove hanno messo in quarantena undici milioni di persone…”. I partecipanti, convinti, concludevano: “No, non siamo in Cina. Tranquilli: da noi mai nessuno accetterebbe quarantene…”.  


Primavera

La prospettiva di partenza del microbiologo è un po’ particolare: dai primi di marzo, in ospedale, il laboratorio di Microbiologia e Virologia “fa i tamponi”. È un lavoro strano, quello del microbiologo: non vede il malato, ma vede oltre il malato, oltre la malattia, cerca di individuare la causa della malattia. È la retrovia dell’ospedale, il laboratorio. Ma senza retrovia non si va mai da nessuna parte. Fa, il microbiologo, la vita del mediano, per citare la famosa canzone del 1999 di Luciano Ligabue:


…Una vita da mediano
Con dei compiti precisi
A coprire certe zone
A giocare generosi

Sempre lì
Lì nel mezzo
Finché ce n’hai stai lì

Una vita da mediano
Da chi segna sempre poco
Che il pallone devi darlo
A chi finalizza il gioco
Una vita da mediano…

Sì, il microbiologo è come il mediano che sta lì nel mezzo, corre avanti e indietro, protegge il portiere, dà la palla a chi finalizza il gioco: va poco sui giornali e non vince il Pallone d’Oro. Anche se poi, magari, in fondo in fondo


…Lavorando come Oriali
Anni di fatica e botte e
Vinci casomai i mondiali…


Ma, come il mediano, deve avere anche la visione del gioco, deve avere polmoni, gambe e cuore. Ecco: deve avere cuore. Per il microbiologo in questi mesi ce n’è voluto, di cuore, in ospedale.

Sappiamo cosa è successo. Non è il caso di ribadirlo. Sta di fatto che il laboratorio non ha vissuto il lockdown: sono stati mesi fatti di giorni tutti uguali, dal lunedì al lunedì dopo, per tante ore in ospedale a “fare tamponi” per allargare la rete dei laboratori che supera l’organizzazione dei Centri di Riferimento e diventa attività di routine, monitorata dagli organismi regionali per garantire la massima qualità possibile. E, in quei giorni, agli incontri coi colleghi passando per il Pronto Soccorso, per i reparti diventati tutti “degenze COVID” o per la Direzione, come anche nella vita quotidiana incontrando tutte le persone che vivevano l’angoscia di un territorio devastato dalle sirene delle ambulanze e dei morti che non avevano una bara dove essere riposti, ecco emergere la fragilità. Quando l’adrenalina è tanta non ci si accorge; quando cala, invece, lì, sì: lì la si scopre bene. Ma è la fragilità di tutti.

Si è parlato di eroismo di chi in prima linea si è dato da fare. Io non credo all’eroismo. Credo alla professione. Non è che il pompiere è un eroe se deve spegnere l’incendio che devasta l’Australia o la Siberia; il comandante della nave che affonda non è un eroe se non scappa. Ci sono momenti in cui è impensabile tirarsi indietro. Ecco: l’ospedale – chi lavora in ospedale – ha riscoperto il senso di una professione che è anche una missione, se così si può dire. Anche chi lavora in laboratorio ha riscoperto il senso di un mestiere che ha il significato di stare nell’unica barca che ospita malati e sani: magari sottocoperta o in sala macchine, non sul ponte o al timone, ma sempre in quell’unica barca. Perché si possono leggere anche laicamente le parole del 27 marzo di papa Francesco: “Siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo trovati su una stessa barca fragili e disorientati, chiamati a remare insieme e a confortarci a vicenda. Su questa barca ci siamo tutti. E ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto proprio. Ma solo insieme. Nessuno si salva da solo.” Le pandemie capitano, inaspettate: il momento era drammaticissimo, non era il caso – almeno in quella fase storica - di operare distinguo: bastava continuare a fare il mediano. Ecco, è stata una fragilità scardinata, questa.


In quei giorni, in ospedale, anche chi stava nel chiuso del laboratorio ha riscoperto il significato di “lavorare in ospedale” – sanitari, tecnici, amministrativi, anche militari… tutti, insomma –: con la consapevolezza che lì arrivava la punta di un iceberg di sofferenze e di rischio- di- vita e con la percezione, nel contempo, di essere in un posto dove si deve fare di tutto per salvare le vite, tanto più se si è nel bel mezzo di una pandemia sconosciuta e devastante. I tecnici e gli amministrativi del laboratorio (anche gli ausiliari) sono stati ammirevoli, al pari dei medici e dei biologi. C’è stato chi ha davvero vissuto l’ospedale, in ospedale, per mesi, con passione, dedizione, entusiasmo, anche in laboratorio, anche senza vedere ECMO e CPAP. Si è lavorato in rete, con gli altri laboratori della Regione, supportandosi, lavorando per chi non aveva mezzi, rispondendo alle richieste di chi era disperato perché non attrezzato o, più semplicemente, perché era in una solitudine inascoltata. La fragilità degli altri è stata riconosciuta come la propria. Insieme si è cercato di fare qualcosa. La somma di più fragilità alla fine è stata una forza.  


Estate

C’è stato un lungo momento di infodemia, a cui i microbiologi non hanno preso parte in maniera massiccia. È cominciato già a marzo e ad aprile, ed è continuato anche dopo.

Mai i “virologi” sono stati tanto popolari, quasi pure più dello stesso SARS CoV-2: di loro si conoscono nomi e cognomi, non solo l’acronimo come il virus. C’è stato un lungo periodo in cui i virologi hanno imperversato nei talk show, in televisione, alla radio e sui giornali: virologi? Peccato che virologi non fossero, per lo più: ma - in ordine strettamente alfabetico – epidemiologi, igienisti, immunologi, infettivologi, intensivisti, medici di Direzione, pneumologi, ricercatori di base e chi più ne ha, più ne metta. È stato un peccato: perché le competenze sono difficili da improvvisare.

Negli anni ’70 Adriano Celentano ha inventato una canzonetta dal titolo impronunciabile, “Prisencolinensinainciusol”:


n de col men seivuan

prisencolinensinainciusol ol rait

Uis de seim cius men

op de seim ol uat men

in de colobos dai

Trr…

Ciak is e main beghin de col

bebi stei ye push yo oh…


Ecco, come l’inglese farlocco della canzonetta era creduto inglese autentico da chi non sapeva la lingua, così in quei mesi l’informazione, martellante e ripetutamente ripetuta, è stata fatta con spiegazioni che non hanno spiegato, con affermazioni spesso contraddittorie, con raccomandazioni non sempre sensate, con un protagonismo disdicevole per ospiti e invitati: ma, il pubblico – come quello di Celentano – era convinto di capire. Per restare in un’abusata metafora: invitati a un talk show di cucina, incentrata sugli antipasti, ecco intervenire Knam e Massari, De Riso e Biasetto, maestri di pasticceria eccelsi ma non chef… La divulgazione non è la promozione delle eco e dei commenti da parte dei media: è cosa seria, non può essere deformata.

La definizione che il dizionario Treccani dà di infodemia recita: “Circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili”.  Tante informazioni sono circolate: e non sempre i divulgatori erano in grado di divulgare. Non è una parolaccia: divulgare. Per farlo, però, bisogna essere davvero bravi: tradurre in termini semplici concetti complessi senza essere semplicistici o cadere nell’errore non è da poco. Bisogna “sapere” bene ciò di cui si parla. Così, i virologi che abbiamo visto – e sentito – divulgare sono pochi, pochissimi… D’altra parte, l’informazione è pervasiva (e invasiva o, meglio, invadente): argomenti di cui si sa poco, quasi nulla, sono stati spesso banalizzati. Alla fine, è forse valso il motto che ogni cosa detta è, per il fatto solo di essere stata detta, vera. Questo ha generato – e continua a generare – confusione. Ha detto Ilaria Capua in un’intervista (21 gennaio 2021): “Lo voglio dire con forza: non è giusto né possibile incasellare una serie di fenomeni biologici come le mutazioni, le delezioni e le loro possibili conseguenze in caselle mentali a misura di clickbait o di telespettatore disattento. Perché non è giusto: si disorienta chi poi ha le chiavi per uscire da questa situazione cioè le persone...” Personalmente, non posso che condividere.

In laboratorio si è lavorato con la preoccupazione di “fare tamponi” perché era urgente farli: ma con le difficoltà – assolutamente incomprese dai clinici – che tutti i microbiologi hanno incontrato, per la mancanza di piattaforme operative, di kit diagnostici, di plastiche e di personale. Difficoltà estreme: ma le plastiche – a differenza delle mascherine – pochi sanno cosa siano: puntali, provette, sacchetti, taniche per lo smaltimento, piastrine, rack… D’altronde – si sente dire – in laboratorio basta premere un bottone e il risultato (prima ancora che l’analisi sia eseguita) è già disponibile in rete…  


Per il laboratorio l’emergenza vera è iniziata a metà maggio: non che prima si fosse scherzato. L’auspicato ritorno ad una sorta di normalità è giustamente coinciso con la ripresa delle attività regolari dell’ospedale. Reparti, sale operatorie, ambulatori hanno ripreso quanto era stato sospeso: tutto è diventato urgente, il volume di attività è cresciuto, le indagini prima sospese sono state re-introdotte, il personale di rinforzo è rientrato – giustamente – alla sua struttura d’origine, interna al Dipartimento di Medicina di Laboratorio, all’ATS territoriale oppure alla Medicina Militare. Da allora, il laboratorio ha mantenuto pressoché inalterate le difficoltà di approvvigionamento, ha incrementato il volume di lavoro, ha introdotto nuove diagnostiche (i test sierologici, ad esempio), non ha visto decrescere il carico di attività burocratica: l’emergenza è rapidamente diventata routine e, si sa, l’ordinarietà uccide.


Il laboratorio è ritornato, quindi, anche alle sue attività ordinarie. Ma la fine della prima ondata… ecco tanta retorica, il ricordo che sbiadisce, la rivendicazione che monta, l’urgenza che prende il sopravvento, l’egoismo che piano piano ritorna. È il ritorno alla normalità. È l’apoteosi della fragilità: tutto e subito.

Per il laboratorio però c’è una complicanza aggiuntiva: la perdita – sostanziale – del “ruolo”. C’è una parola-chiave che per decenni ha costituito la spina dorsale del laboratorio di Microbiologia e Virologia: “appropriatezza”. Intorno a questo attributo il laboratorio ha costruito la sua credibilità: all’appropriatezza prescrittiva consegue quella analitica e, infine, quella interpretativa; all’appropriatezza delle attività di laboratorio conseguono la rispettabilità della disciplina, la credibilità degli interventi, il valore aggiunto “consulenziale” dei professionisti.

È evidente come la criticità assoluta rappresentata dalla violenza inimmaginabile di COVID-19 abbia scardinato ogni regola, e che l’ignoto abbia imposto d’urgenza a tutti l’adozione di soluzioni di buon senso: ma, come in tutte le cose della vita, il risultato della costruzione di rapporti e attività durati trent’anni è stato spazzato via in tre mesi. Poi, ricostruire è difficile. È, forse, questa la summa delle fragilità.


Autunno

Era il 1969 quando Simon & Garfunkel cantarono per la prima volta “Sound of Silence”: da allora la canzone è risultata davvero immarcescibile, bellissima com’è.

È anche la colonna di questa stagione: non che da luglio a settembre abbia prevalso il silenzio. Anzi: la vita è ricominciata come prima, la sensazione dello scampato pericolo si è tradotta nella sostanziale restitutio ad integrum della vita.

Cosa è rimasto di un inverno e di una primavera come mai si erano visti? Mai i primi sei mesi dell’anno erano stati tanto belli dal punto di vista meteorologico: pioggia pochissima, sole tanto, temperatura mite, aria pulita, cielo terso. Mai i primi sei mesi dell’anno erano stati, però, tanto devastanti: morte, malattia, solitudine. Sei mesi lunghi come un anno, o forse anche di più. E di abbandono, affanno, dolore. E, ancora, di pietà, misericordia e solidarietà. Cosa è rimasto di un inverno e di una primavera come mai si erano visti? Nulla: il sole dell’estate ha messo a tacere il silenzio di quei mesi senza sublimarli.


E nella nuda luce vidi
dieci migliaia di persone, forse più
persone che parlavano senza dire niente
persone che sentivano senza ascoltare
persone che scrivevano canzoni che non ne avevano mai condiviso le voci
nessuno osava
disturbare il suono del silenzio…


Ai partecipanti ad una conversazione, a metà agosto, si ripeteva, come un mantra: “Attenti… non è finita. La storia delle epidemie insegna due cose: che alla prima ondata ne segue sempre una seconda, ancora più devastante, e che alla fine nulla sarà più come prima”. I partecipanti, scettici, commentavano scegliendo per il ricordo nostalgico dei mesi freddi dell’inverno passato piuttosto che per quelli – egualmente freddi – dell’inverno venturo.

Ma il silenzio non si esaurisce nel “vissuto” di ognuno di noi: il non-comunicato si sposa da un lato all’infodemia dilagante, dall’altro all’altrettanto dilagante ed incontrollabile desiderio di normalità. Così, anche gli aspetti tecnici delle competenze virologiche sono diventati marginali: tamponi per la ricerca molecolare di SARS CoV-2, ricerca di anticorpi anti-SARS CoV-2, ricerche antigeniche di SARS CoV-2 sono diventati – per il pubblico generalista, e spesso anche per gli specialisti della Medicina – sinonimi, stante il denominatore comune di SARS CoV-2. Di tutta l’erba, un fascio: tutt’al più la differenza era per i test rapidi, poco conta se antigenici molecolari o sierologici, bastava fossero rapidi.

L’infodemia dis-comunicativa ha fatto dimenticare almeno un concetto basilare, che anche i microbiologi conoscono bene: la differenza tra infezione e malattia da infezione, a cui conseguono anche il differente approccio alla diagnostica e la differente interpretazione dei numeri che quotidianamente sono propinati in merito ai tamponi “positivi”. In un incontro, a fine ottobre, con gli studenti di un liceo, si ripetevano le modalità di trasmissione dei microbi e la differenza tra infezione e malattia infettiva. Alla fine, sembrava avessero le idee un po’ più chiare: ma erano passati mesi da che SARS CoV-2 era tra noi, ed era servito un incontro specifico sul tema…

Gli esami di laboratorio sono uno strumento fondamentale per garantire la diagnosi dell’infezione e l’assistenza del malato. Da decenni, però, i microbiologi ribadiscono la necessità di rispettare il concetto di appropriatezza prescrittiva: i diversi test devono essere utilizzati con competenza poiché richieste inappropriate possono fornire risultati fuorvianti nella successiva gestione dei casi. Pare evidente che “il problema” sia dare indicazioni in merito a quale test microbiologico sia opportuno utilizzare nella pratica quotidiana.

I test sierologici – nella variabilità degli antigeni contro cui gli anticorpi sono prodotti – sono fondamentali per definire l’epidemiologia dell’infezione e, in taluni casi, per completare le informazioni che derivano dai test per la rilevazione virale, completandone il quadro diagnostico. I test di RT-PCR, finalizzati all’identificazione dell’RNA di SARS CoV-2 nei secreti nasofaringei (ed in altri materiali respiratori) sono considerati il gold standard per la diagnosi di malattia da infezione da SARS CoV-2, sebbene numerosi siano i limiti che li contraddistinguono: il timing e la modalità del prelievo, oltre alla piattaforma analitica utilizzata ed al fatto che devono essere considerati solamente a scopo diagnostico. Per questo l’indicazione al loro utilizzo è che si sia in presenza di un forte sospetto clinico sia di “malattia da infezione” che di “infezione” per il contatto stretto con un soggetto con positività accertata. I test antigenici – gravati da grande variabilità a seconda della tecnologia (immunocromatografia lateral flow vs immunoluminescenza, o fluorescenza lateral flow vs immunofluorescenza con lettura in microfluidica o chemiluminescenza) o della matrice biologica utilizzate, nonché dei produttori considerati (ormai presenti sul mercato in centinaia) – risentono egualmente della prevalenza (che varia nel tempo e nello spazio) dell’infezione da SARS CoV-2 nei setting particolari di popolazione considerati e dovrebbero essere riservati al contact tracing (accurato e completo) di soggetti positivi, senza essere considerati adeguati allo screening di massa della popolazione. Così, i test di rilevazione molecolare o antigenica di SARS CoV-2 non trovano indicazione scientifica al di fuori di tali casi (diagnosi eziologica dei casi di “malattia da infezione” da SARS CoV-2 i primi, contact tracing dei casi di “infezione da SARS CoV-2” i secondi): al di fuori di tali indicazioni il ricorso a test diagnostici è un utilizzo “inappropriato” alla diagnostica virologica che comporta una gestione inappropriata delle risorse (economiche, strumentali, umane) perché risponde a necessità di “curiosità” di natura individuale, sociale o mediatica che – per quanto legittime nei vari ambiti quali, ad esempio, quelli familiare o ospedaliero – sono altro dai quesiti diagnostici indispensabili per le gestioni clinica e comunitaria dei dati. Sono la “fotografia dell’oggi”, senza possibilità di previsioni sull’attendibilità del test nel futuro: è, quindi, competenza e responsabilità del microbiologo confermare questo principio, scoraggiando l’utilizzo inappropriato di test il cui risultato può determinare – individualmente – “false” certezze tra i beneficiari degli esiti ottenuti e, di conseguenza – collettivamente – l’adozione di comportamenti imprudenti, e rimarcando al contrario la necessità del rispetto zelante dei comportamenti (distanziamento, igiene delle mani e uso della mascherina) virtuosi da tempo indicati.


Conclusioni

La curva riprende a salire, la seconda ondata è diffusa e miete più vittime della prima, il silenzio continua a ovattare il frastuono delle rivendicazioni e delle polemiche, il disagio anche di chi lavora in laboratorio certo non decresce. Qualche volta verrebbe da urlare, condividendone la metafora, l’impronunciabile titolo scurrile di una canzone di successo (erano gli anni ’90) di Marco Masini:


…Chi lo sa che cosa è vero in un mondo di bugiardi

non si può cantare il nero della rabbia coi miliardi

siamo tutti conformisti travestiti da ribelli

siamo lupi da interviste e i ragazzi sono agnelli…


È stato un anno incredibile e spaventoso, ingestibile ed esaurente. Ci siamo spaventati ed anche esauriti: ma ci abbiamo creduto e l’abbiamo gestito, questo anno, al meglio delle nostre capacità. È stato un anno che, col senno di poi, è stato anche umanamente entusiasmante, per certi versi. Abbiamo lavorato tanto. Abbiamo parlato poco. Forse le due cose sono andate insieme.


È stato detto che dopo la pandemia nulla sarà più come prima. Probabilmente è vero, anche per il mondo della microbiologia: forse sarà necessario ripartire dalla base senza dare nulla per scontato, ricostruendo con i clinici, nostri interlocutori primari, rapporti di parità che giustifichino l’esistenza di una microbiologia autenticamente basata sull’evidenza e davvero clinically-oriented, inventando strategie che realmente contemplino l’utilizzo composito di strumenti diversi, di quelli tecnologicamente avanzati e di altri classicamente consolidati. D’altra parte, l’emergenza organizzativa deve lasciare il posto alla pianificazione delle attività, con l’attribuzione di risorse, umane e tecnologiche.


Quattro stagioni di questo primo anno di COVID-19 sono trascorse. La prima ondata ha travolto il mondo in modo violento (Bergamo in modo violentissimo): la seconda - ovunque peggiore della prima - non è ancora conclusa che già la terza si sta per sovrapporre alla precedente. La ragionevolezza della gente vacilla, lo shock dell’urto pandemico è largamente ridimensionato da parte dei più, i comportamenti individuali sfidano il rischio senza calcolare la portata delle conseguenze che essi hanno sulla collettività e la fiducia nei vaccini da un lato pare non avere scalfito la resistenza di chi, scettico, prima vuole vedere che funzionino, dall’altro sancisce – per il solo fatto che questi cominciano ad essere disponibili – il “liberi tutti”. In tutto questo, la “fede” nei tamponi rimane – scioccamente – immutata da parte di tutti mentre, certo, i progressi tecnici della diagnostica progrediscono, con i tempi della ricerca e, paradossalmente, con i limiti rischiosi che il mercato propone per la disponibilità di test di centinaia di aziende dalle performace tanto variabili da essere, in molti casi, inaffidabili.


Anche i microbiologi, alla fin fine, sanno essere seri, e magari possono rispondere, per la loro parte, con musica altra, oltre che alta: quella de “La cura” di Franco Battiato. È l’auspicio di una ritrovata professionalità, del senso etico della propria disciplina, dell’umiltà del mediano in ospedale, di chi cerca di applicare con rigore la medicina-basata-sull’evidenza, rifuggendo il conformismo mediatico (e non solo) applicato alla scienza:


Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie
Dai
 turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via

Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo
Dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai

Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore…

E guarirai da tutte le malattie
Perché sei un essere speciale
Ed io avrò cura di te…

Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza…


Perché bisogna avere la consapevolezza del proprio ruolo, senza invadere il campo altrui (e possibilmente evitando, all’opposto, invasioni di campo): con la dignità che anche una disciplina “da mediani” rivendica.

Perché, nel nostro piccolo lavoro da sottoscala, anche noi possiamo smentire Paul Valéry che, nel 1960, scriveva: “C’è l’illusione perduta di una cultura europea, c’è la scienza violata nelle sue ambizioni morali e quasi disonorata dalla crudeltà delle sue applicazioni…. ci sono gli scettici che perdono i loro dubbi, li ritrovano, li perdono di nuovo e non sanno più avvalersi dei moti del loro spirito”.